Una pittura tanto affascinante quanto densa di significati, che chiama in causa l’osservatore non come spettatore ma come protagonista”

Una pittura tanto affascinante quanto densa di significati, che chiama in causa l’osservatore non come spettatore ma come protagonista”

Christian Carlini nasce a Roma nel 1981. Trova nella pittura iperrealistica la più consona espressione della propria indole creativa. Una personalità artistica sofisticata e profonda, che associa una componente artigianale del mestiere dell’arte di altissima qualità, ad una ricerca di significati dentro e oltre la materia, tale da sconfinare nella meditazione religiosa e nella riflessione esistenziale. Il primo fascino che l’osservatore di un dipinto di Carlini subisce, scaturisce dall’aspetto tecnico-materico. In un’era ossessivamente virtuale, che ci ha ormai abituati a vivere perfino le relazioni umane secondo la modalità liquida del web, non si può non rimanere ipnotizzati quando ci si trova davanti ad un’opera artistica capace di dichiarare, anzi, di gridare la sua primordiale natura di “manufatto”, cioè oggetto prodotto “a regola d’arte” sulla base di una scrupolosa conoscenza dei materiali e destreggiando in maniera virtuosistica una tecnica esecutiva particolarmente laboriosa, che richiede tempi lunghissimi, pazienza sconfinata, concentrazione totale e manualità di precisione chirurgica. E deve essere lo stesso Carlini a svelarci i passaggi del suo procedere, poiché ad opera compiuta, la perfetta resa pittorica – che tanti pur illustri esperti ha beffato, illudendoli di trovarsi di fronte ad una fotografia – nulla svela o tradisce dell’immenso lavoro di pennello svolto. Sulla tela di tessuto misto a grana finissima, egli stende in tre mani – ogni volta intervallate da una rasatura a carteggio – di una preparazione acrilica a base di bianco titanio, in associazione con smalti per uso tessile. Il risultato di questa prima fase preparatoria è una superficie levigatissima, particolarmente adatta a far emergere i punti di luce. Eseguito a grafite il disegno, l’artista procede alla campitura dei volumi, usando colori alchidici, per poi passare alla stesura pittorica più importante, eseguita con colori ad olio di altissima qualità, per esaltare al massimo luci e ombre. Si procede con alcuni passaggi di velatura cromatica per calibrare vividezza e saturazione. Si conclude con due mani di vernice finale. Se fossimo costretti a catalogare le pitture di Carlini per genere d’appartenenza, dovremmo definirle “nature morte”. Gli oggetti che abitano le sue tele sono tutti facilmente riconoscibili. Se considerati singolarmente, essi appartengono alla nostra quotidianità: rose e orchidee, confetti, dolciumi, bicchieri, vasi e altri contenitori di vetro trasparente. Ma la rassicurante familiarità di questi oggetti di uso comune viene subito incrinata e convertita in sottile inquietudine dalla sintassi, cioè dalla modalità di accostamento di questi singoli elementi tra loro, come il bocciolo di rosa blu custodito nella pancia di un calice di vetro capovolto, o il bocciolo di rosa rossa poggiato in equilibrio precario sul fondo di ciò che resta di un bicchiere in frantumi. Ad accrescere nell’osservatore il sospetto che il dipinto non voglia semplicemente “rappresentare ciò che si vede”, aumentando il senso di inquietudine e quasi l’attesa di una rivelazione, sopraggiunge lo spazio. Nei dipinti di Carlini lo spazio non è circoscritto né misurabile, anzi, tende a proseguire al di fuori della tela, nello spazio fisico reale dell’osservatore ma soprattutto nei suoi occhi e nella sua mente; è uno spazio vuoto, non descritto attraverso componenti d’arredo ma abitato e quindi creato per conseguenza dalla relazione tra quei pochi oggetti che sono i protagonisti dell’opera. E’ uno spazio fatto di luce, declinata in modo tale da fornire all’osservatore indizi utili e incamminarlo verso la comprensione del significato iconologico dell’opera. Una luce che sottolinea o, per assenza, ottenebra alcuni particolari piuttosto che altri, diventando così materializzazione pittorica della mente umana che riflette e medita su quegli oggetti e sul messaggio che essi custodiscono. A gettare definitivamente l’osservatore nel panico dello spaesamento è, in ultimo, il titolo dell’opera, totalmente avulso dal soggetto iconografico rappresentato, tanto più stridente e spiazzante quanto più realistica e quasi fotografica è la resa pittorica degli oggetti rappresentati. Titoli che dichiarano la profonda religiosità dell’artista, nella misura in cui spesso evocano episodi biblici, sia vetero sia neo-testamentari. Ed ecco dunque che un’orchidea dalle foglie palmiformi in un bicchiere di vetro infranto diventa “Il flagello delle palme”, evidente richiamo alla Passione di Cristo. O le rose galleggianti nell’acqua di un altissimo calice di vetro, con un unico petalo rosso adagiato sul piano d’appoggio, sono “L’arca” del veterotestamentario diluvio universale. L’espediente di attribuire ad un’opera un titolo non rispecchiante il soggetto rappresentato, anzi, avulso e disorientante rispetto ad esso, fu adottato da alcune delle più trasgressive avanguardie storiche di inizio Novecento: Dada, la Metafisica, il Surrealismo. Quando il fare artistico spostò provocatoriamente il proprio baricentro dalla componente artigianale a quella intellettuale, quando ciò che trasforma un manufatto in opera d’arte venne tutto concentrato sulla sfera iconologica dei significati, il titolo diventò un agente creativo primario. L’orinatoio di Duchamp non è nemmeno un manufatto, è un oggetto d’uso comune, “scelto” e sottratto alla propria funzione: ma fu il titolo “Fontana” a trasformarlo in un’opera d’arte. Quelli dipinti da De Chirico sono solo due manichini affiancati, ma il titolo li trasformò nei due personaggi epici di “Ettore e Andromaca”. E un’iperrealistica pipa di cui Magritte chiarì per iscritto che non era una pipa, non è certo la prima immagine che assoceremmo ad un titolo come “L’uso della parola”. Dunque, operando una analoga discrasia tra significante e significato, tra oggetti comuni rappresentati con una definizione quasi fotografica e il loro titolo, Carlini costringe l’osservatore a cercare messaggi che travalicano la realtà fisica e fenomenica di ciò che vede, pur tanto tangibile, concreto e vero. E’ l’operazione implicita nell’arte Metafisica, che indaga l’essenza intima della realtà al di là dell’esperienza sensibile. E proprio come in molte opere di De Chirico, nei dipinti di Carlini sembra regnare un silenzio cosmico, dove mute presenze in un tempo sospeso celano un enigma: all’osservatore si demanda il compito di svelarlo. Iperrealista nella tecnica esecutiva, fiammingo nella scelta tipologica dei soggetti, metafisico nell’indagine dei significati, Carlini è in definitiva un artista difficilmente inquadrabile in chiare e rassicuranti maglie classificatorie. E forse proprio questo è l’obiettivo ultimo delle sue opere: catturare l’osservatore con la malìa della tecnica pittorica, indurlo a chiedersi se quegli oggetti così familiari siano dipinti o fotografati, per poi costringerlo – attraverso il dubbio instillato dal nonsenso relazionale tra soggetto iconografico e titolo – a riflettere e meditare sull’esistenza umana, su questioni morali e spirituali. Così, per esempio, “L’arca” su cui Noè imbarcò uomini e animali per salvarli dalle acque che avrebbero purificato il creato dal male e dal peccato, è anche il calice in cui ciascun individuo custodisce i fiori vitali e benefici della propria esistenza, lasciando giacere a terra ciò che è mortifico. Una pittura, dunque, tanto affascinante quanto densa di significati, che chiama in causa l’osservatore non come spettatore ma come protagonista.

Cinzia Mastroianni Storico dell’arte – Critico D’Arte

Professore di storia dell’arte, estetica delle caratteristiche visive, teoria della percezione e psicologia della forma

Ad un’estetica dei linguaggi visivi che Christian Carlini medita prima e contempla poi va aggiunta e considerata una tecnica accurata, meticolosa, che discerne materiali e utensili: i supporti sono tessiture di alta qualità e gli strati preparatori sono pigmenti scelti perché, sia per la stesura che per l’essiccazione, possano accogliere e rendere efficaci le cromie. I pigmenti cromatici derivano da impasti di alta qualità e di componente naturale, sia i medium che i leganti contenuti nelle paste cromatiche sono scelti accuratamente, e ogni quadro, ogni opera, risente di un’armonia che è frutto di un discernimento filosofico-estetico e tecnico. Persino i pennelli, talvolta veri e propri aghi di silicone, fanno in modo che l’idea dell’artista dall’Iperuranio entri nella materia e diventi brillantezza della materia. Parafrasando il Maestro filosofo dott. Gabriele La Porta, la bellezza dell’opera d’arte si rivela in quella radiosità che da ogni elemento dell’opera si effonde fino a coinvolgere l’osservatore. Christian Carlini rende quasi musicale ogni sua opera in quanto i vuoti e i pieni, gli elementi in primo piano come quelli sulle quinte e nello sfondo, vengono rappresentati e raffigurati con una precisione che supera l’Iperrealismo, e infatti l’estetica del linguaggio visivo di Christian Carlini e il suo talento tecnico, non sono mero virtuosismo, ma piuttosto la ricerca di una visione più profonda e insieme più alta: la visione dell’angelo.

Prof. Alberto D’Atanasio

Docente storia dell’arte, critico e curatore “Casa Modifgliani”

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TRA IPERREALISMO E METAFISICA

Ci sono verità che vanno oltre le capacità della ragione che, giunta al suo limite estremo, utilizza il linguaggio simbolico. Tale uso attiva una funzione diversa della mente umana che non deve essere confusa col semplice uso della fantasia, della creatività che inventa delle belle immagini: non si tratta di invenzione, ma di allusione ad una realtà, non irrazionale, bensì sovrarazionale. Il potere allusivo delle immagini stimola la capacità intuitiva e visionaria dell’intelletto. Una fotografia o un quadro di tipo “realista” pongono l’osservatore davanti alla realtà così come si manifesta, e non necessariamente così come è, filosoficamente due cose ben diverse e perfino, a seconda delle teorie, in contraddizione. Alcune immagini rivelano, tramite i simboli, altri scenari percepibili attraverso la struttura narrativa che l’artista riesce a “tessere” coi linguaggi della pittura. E’ il caso, ad esempio, del padre del movimento metafisico Giorgio De Chirico, il quale, nel quadro “Canto d’amore” – che commosse René Magritte – nell’apparenza di oggetti scollegati tra loro, raffigurò invece l’essenza della sua infanzia e della sua prima adolescenza. Christian Carlini, nel suo percorso storico e artistico, fonde la pittura metafisica e quella surrealista. La sua rappresentazione della realtà diviene raffigurazione di un concetto meditato, interiorizzato, che nella metafora immaginifica del dipingere diviene fabula, racconto; nel racconto la realtà diviene storia, memoria che vuole essere narrata, ma che pur svolgendosi nel tempo viene fissata da Christian Carlini icasticamente, quasi a assumere i connotati dell’atemporalità. L’iperrealismo di Christian Carlini non è una realtà estremizzata nella rappresentazione dei suoi particolari, quanto e soprattutto trasfigurazione di un pensiero, rivelazione di un’interiorità cui un’icona, la cui luce fa sentire l’eco di un silenzio soprannaturale, può dar voce. Quando nella prima metà del XIX secolo fu inventata la fotografia, la pittura non poté non reagire a questa sfida, così gli Impressionisti compresero che potevano far ciò che la fotografia non avrebbe mai potuto restituire: rappresentare la visione del momento attraverso la luce e i colori, rappresentare l’inebriamento che la vibrazione del colore produce sull’animo del pittore grazie alla luce di quel particolare istante della giornata. Basti pensare alla serie della Cattedrale di Rouen ad opera di Monet. Che cos’è dunque la realtà? E quale è la rappresentazione più fedele di essa? Quella fredda e oggettiva che separa nettamente l’oggetto dal soggetto, dalle sue emozioni e impressioni, o quella che rappresenta la relazione tra il soggetto e l’oggetto e l’effetto del secondo sul primo? E’ l’antica querelle che separa Idealisti e Realisti, presente perfino nell’interpretazione della meccanica quantistica. Fin dall’antichità uomini di diverse culture hanno ipotizzato l’esistenza di una realtà al di là di quella fisica e materiale, una realtà che è oltre ciò che è fisico, e dunque “metafisica”, invisibile agli occhi, ma visibile, come riteneva Platone, con gli occhi dell’Intelletto, della mente, dell’anima, o ancora raggiungibile attraverso la meditazione. Ma non solo il filosofo o il mistico ricercano e raggiungono le più alte vette dello spirito giungendo alla “Visione”: ci sono artisti che oltre a “vedere” sanno anche raffigurare, come Christian Carlini. Egli è uno di quegli artisti che vivono il fare arte come una vera e propria vocazione: come uno sciamano, egli dà volto al mistero, e quindi lo svela. Egli è una di quelle persone rare che sanno vedere proprio “quella realtà”, meditarla, contemplarla e raffigurarla nella composizione. Ma la sua, non è semplice rappresentazione del Vero, ma piuttosto un arcano che si svela attraverso la pittura e la pittura iperrealista. Il titolo di ogni opera è il codice e la chiave di lettura per decifrare la metafora e cogliere il senso del tutto. La realtà che Christian Carlini dipinge con un talento assoluto, e una maestria che è conoscenza antica e moderna della tecnica, è metafora nel vero senso etimologico del termine: ogni suo oggetto, che sia fiore, frutto, sasso o muffin, si trasmuta, nel particolare accostamento da lui scelto, in simbolo. Il termine “metafora” deriva dal greco metaphérō, che significa “io trasporto”: si tratta di un trasferimento del significato di una parola su di un’altra, ad opera della sostituzione di un termine con un altro che ha una maggiore carica espressiva; così, ad esempio, Carlini, nell’opera intitolata “Sentenza inoppugnabile” – che potrebbe richiamare scenari cupi e drammatici – pone un muffin in un incarto crespato di colore verde reso più appetibile da una crema che sa di amarena. Il muffin è collocato al di sopra di sei sassi assemblati come fossero un dolmen che costringe quattro lilium di color arancio. Questi ultimi richiamano l’idea che a sostenerne il peso di un fatto irreversibile è il “sacrificio della bellezza”. Christian Carlini, su un fondo nero, così che i colori e i particolari si possano ben distinguere, mostra all’osservatore un’insolita composizione che nel titolo pone la distinzione tra legge e giustizia. Così lo spettacolo illusorio e appariscente – ma appunto per questo pura apparenza e quanto mai lontano da quella realtà vera che lo sguardo dell’artista coglie – delle legge umana schiaccia l’antica fortezza trascendente del giglio che in questa nostra lettura è la giustizia. Così pure, nell’opera “Scusate il ritardo”, ciò che vediamo immediatamente è un pezzo di dolce a forma di cubo, lievitato e al cioccolato, con sopra mandorle tostate, sciroppo di ciliegie e panna candida e di forma spiraliforme. Il dolce è collocato su di un piatto di vetro trasparente che richiama la forma di un pecten. La torta al cioccolato fa pensare alla terra porosa che in qualche modo è stata arricchita dalla bellezza, ma non si tratta della bellezza banale che stimola golosità e acquolina in bocca, il Maestro Carlini va oltre: la panna candida e spiraliforme è forse il soffio di Zefiro che sospinse Afrodite sulla terra. E proprio a Primavera, simboleggiata dalle ciliegie, Afrodite giunge a Cipro a donare i suoi frutti rossi di passione che irrorano e vivificano, oltre alla terra, perfino l’acqua da cui essa è sorta. La mandorla tostata è l’antica amigdala, simbolo della femminilità e del femminile, ed è tostata, scottata perché l’uomo si è soffermato alla visione palese e superficiale della bellezza: non ha decifrato l’arcano, non è andato oltre, incapace di vedere la realtà che è oltre l’immediatezza. Tramite l’artista Afrodite torna ancora, torna nonostante i limiti umani nell’accoglierla e con ironia afferma: “scusate il ritardo”.

Valentina Orlando

dott. di ricerca in Filosofia e scienze umane, docente M.I.U.R, saggista e scrittrice

membro del Concept Board dell’Istituto Modigliani

Edward Lucie-Smith per Christian Carlini

Viviamo in un momento in cui le arti visive, preoccupate di trasmettere lezioni sociali e morali al loro pubblico, sembrano spesso dimenticare il principio del piacere, oppure, se lo ricordano, ciò che spesso vogliono fare è fornire al proprio pubblico sensazioni immediate, cose che spesso sembrano avere poco a che fare con la creazione di oggetti e immagini stabili – cose pronte a prendere posto nel mondo che gli spettatori occupano come parte delle loro esistenze quotidiane, ad esempio, per visitare una galleria pubblica, attirano con la promessa di far vivere un “esperienza” contraria a ciò che potrebbe essere offerto fuori.
Christian Carlini si descrive come un “iperrealista” e cita Salvador Dalì: “Non aver paura della perfezione perché non la raggiungerai mai.” Cita anche un altro detto di Dalì: “Non mi preoccupo di essere moderno dal momento che questa – fortunatamente – è l’unica cosa che non posso evitare”.
Questa filosofia è espressa da Carlini e viene percepita se si osservano i suoi dipinti intensamente.
Gli oggetti che compongono la scena del dipinto coprono una gamma relativamente limitata di argomenti: cibo, principalmente torte e gelati, squisitamente presentati, il tipo di dolce o gelato che potrebbe essere offerto in un elegante ristorante; Bonsai, sempreverdi o di agrumi pronti per essere piantati, con del terreno aggrappato alle radici.
Sebbene non vi sia nulla di direttamente paragonabile a questi dipinti nel lavoro dei pittori di nature morte del Vecchio Maestro, alcune somiglianze si suggeriscono.
Ci sono collegamenti con il lavoro di alcuni artisti spagnoli della fine del XVI e dei primi del XVII secolo, in particolare con il lavoro di Juan Sánchez Cotán (1560-1627) – le nature morte dipinte prima che Cotán chiudesse il suo studio di Toledo nel 1603 per entrare la vita religiosa. Mentre Cotán ha fatto composizioni austere di frutta e verdura queste non sono così drasticamente semplificate come quelle che Carlini ci mostra.
Carlini ha una sensibilità piuttosto simile al lavoro ma formata da idee e condizioni contemporanee. Non c’è atmosfera religiosa qui. Come dice la voce di Wikipedia per Cotán: “Anche se gli oggetti sono disposti in modo tale che sembrino abbastanza vicini da toccarsi, sono comunque distanziati.
Nonostante tutto il realismo con cui sono raffigurati, l’isolamento di ciascun oggetto, accentuato dallo sfondo nero, conferisce loro una gravità monumentale, quasi scultorea.
L’opera di Carlini differisce da questa in un aspetto importante, tuttavia, che gli sfondi che egli sceglie non sono neri ma di un grigio molto chiaro. Ciò non influisce sulla tattilità di ciò che mostra, anzi, Le cose che dipinge sono distanziate, paradossalmente sono anche molto presenti, quasi invitando il tocco dello spettatore e ciò è dovuto, almeno in parte, all’approccio dell’artista al colore.
Le tonalità che impiega sono, dice, “un’evoluzione dei colori classici usati nell’iperrealismo”. Vale a dire, mira ad andare oltre i confini dell’arte fotografica. L’influenza qui è il colore che vediamo ora sugli schermi dei televisori ad alta definizione dotati di 4K HDR e che carlini emula. Queste tonalità aumentano l’impatto visivo andando oltre i normali confini della percezione umana. Intensificano il potere dello sguardo, fino a un punto mai sperimentato in precedenza.
Un’altra grande differenza rispetto a Cotán, e anche da tutta la natura morta del passato, sta nell’abbraccio di Carlini di oggetti che riconosciamo molto della nostra epoca . L’elegante Positano Ice, per esempio, è davvero un piacere moderno. Un piacere che potresti assaporare in un bar situato in un elegante resort sulla Costiera Amalfitana.
Il wafer, prodotto industrialmente ed il cucchiaio di plastica sono garanzie di contemporaneità.
Il messaggio principale che trovo nel lavoro di Carlini, sia che lo intenda pienamente o no è un fascino per il reale. Non sta propagando alcun credo. Non ci sono messaggi nascosti. Ciò che lo ha affascinato come pittore è lo stato delle cose come sono. Contempla le cose che sceglie di dipingere con uno sguardo assolutamente non giudicante. Vuole condividere l’esperienza del vedere con un’intensità che va oltre la capacità dello spettatore di vedere gli oggetti per quello che sono. Nel mondo che ci circonda, i nostri occhi cadono su una moltitudine di oggetti. Pochissimi hanno un impatto più che tangenziale. Guardiamo e poi guardiamo altrove qualcos’altro. Le scene e gli oggetti che di tanto in tanto attirano la nostra attenzione quasi invariabilmente lo fanno perché risuonano con qualcosa dentro di noi – qualcosa che conosciamo già o che abbiamo sperimentato in precedenza. Carlini ci chiede semplicemente di guardare – di sperimentare ciò che ci mostra senza preconcetti. A volte i suoi titoli forniscono indizi silenziosi – Sulla vetta dell’Olimpio, ad esempio, con un Cup Cake in bilico su un mucchio di ciottoli. O L’isola del Tesoro, dove la zolla di terra che sostiene il bonsai offre un paio di monete. Eppure questi suggerimenti hanno invariabilmente un elemento di ironia. Sembrano commenti ironici o incapacità, come esseri umani, di guardare le cose semplicemente per quello che sono.